“Ma dove si trova Lobia?”, chiedeva la Signora Nanda, titolare della Galleria “Ponte Rosso” di Milano, in quel lontano 1996, quando alla guida della sua automobile giunse in centro a San Bonifacio, pensando di essere già arrivata a destinazione per incontrare il nostro Vittorio Carradore.
E la sorpresa non fu irrilevante quando per giungere a destinazione, secondo le indicazioni delle guide improvvisate alle diverse fermate lungo le strade sambonifacesi, si trovò in una sperduta landa di campagna al confine tra la provincia di Vicenza e quella di Verona, sulla strada per Lonigo, “quasi un altro mondo” ebbe a dire. Sì, perché l’ambiente in cui vive un artista è determinante per il suo “fare arte” e l’ambiente in cui vive Vittorio Carradore è un tutt’uno con la sua arte, un altro mondo o un mondo di altri tempi si potrebbe anche dire.
Lo ritrovo un mattino di un giorno di sabato nel suo studio, al primo piano della sua abitazione, in compagnia di un fotografo e di un comune amico, intento a rimaneggiare le sue opere, fra una miriade di tavole e tele appoggiate una sull’altra a ridosso delle pareti e dei mobili, o fra gli interstizi delle porte di ingresso alla stanza ed in corridoio: sta selezionando le opere da fotografare per il prossimo catalogo in occasione della mostra a Treviso presso la Casa dei Carraresi. Tutto intorno gli arnesi del mestiere, il cavalletto, il carrello porta attrezzi, il tavolo tecnigrafo zeppo di supporti, di medium, di colori, di disegni ammucchiati, una scaffalatura metallica traboccante di libri d’arte e cataloghi. Ovunque ti giri rischi di urtare qualcosa e provocare qualche disastro.
Lui invece si muove sicuro, quasi un acrobata fra gli attrezzi ginnici, un prestigiatore che elaborando e rivoltando tavole e tele con abilità magiche rituali, ne svela opere di indubbio genio artistico. Finita l’opera del fotografo mi intrattengo per una conversazione per preparare, con lui, la sua “autopresentazione”. Chi meglio dell’interessato, dell’artista in questo caso, può parlare della sua arte, del suo modo di concepire il mondo?
Vittorio Carradore accetta di buon grado di sottoporsi alle mie sollecitazioni, alle mie curiosità più profonde, perché quelle in superficie sono già appagate da una conoscenza e da una amicizia di lunga data.
Così, gli pongo la prima domanda: “Quanto ha influito per la tua formazione artistica – pittorica l’ambiente ove sei nato e vissuto fino ad ora?”.
“Sicuramente tantissimo: essendo nato e vissuto in campagna, ove tutt’ora abito, ho assorbito tutti gli umori della natura nell’evolversi delle stagioni, che declinano tutta la tavolozza dell’immaginario coloristico, e il segreto proprio dell’abilità artistica è proprio quello di saper restituire alla vista le meraviglie del mondo esterno secondo una propria visione personale. Per questo nella mia produzione artistica è prevalente la pittura di paesaggio, non però inteso come scenografia, rappresentazione dell’ambiente, bensì come soggetto vivente”.
“Questi scorci di paesaggio, tipicamente veneto, della pianura e della collina veronese sullo sfondo, sono da te caratterizzati con particolari “tagli”; se dovessimo cercare un contrappunto con qualche scuola della tradizione pittorica in genere ed in particolare quella veneta, a chi dovremmo fare riferimento?”.
“Fin dall’inizio sono stato affascinato dai pittori impressionisti, in particolare da Monet, per quel modo di fare pittura “en plein air”, catturando le luci del momento in particolari scorci di paesaggio, del tutto diversi da quelli dell’Accademia, che poi via via sono riuscito a trasferire nei miei “tagli”, rinvenibili nella campagna veronese con all’orizzonte le colline e montagne della Lessinia. Nella preparazione dei miei quadri dò molta importanza all’inquadratura che, fra tutte quelle possibili, deve essere quella che soddisfa appieno l’espressione poetica. Nella mia ricerca di uno stile personale mi sono trovato a rileggere sotto una nuova luce, grandi artisti come Cézanne, Van Gogh e Gauguin, per arrivare poi a scoprire i pittori della scuola di Burano ed in particolare Gino Rossi”.
“Guardando i tuoi quadri, non si può non restare favorevolmente colpiti da un grande effetto “amarcord” dei luoghi, del vissuto, delle situazioni esistenziali, quasi un flash per fotosensibilizzare una traccia di memoria delle diverse tappe percorse nelle varie età della vita”.
“Come pittore ritengo importante saper affrontare diversi soggetti, oltre al paesaggio, per cui nelle diverse fasi della mia produzione artistica mi sono cimentato con la figura, oltre alla natura morta e ambientazioni di “interni” per suggellare momenti della vita, in particolare quelli legati all’infanzia, all’adolescenza, allo sport e altre situazioni”.
“Quali sono le persone che più hanno influenzato la tua formazione personale, in famiglia, nella scuola, nell’ambito sociale di appartenenza, nell’ambito dell’attività lavorativa?”
“Ricordo con grande commozione la prima scatola di colori a olio che mi ha regalato mio padre, quando avevo ancora dieci anni e le prime uscite con l’amico artista Pino Baù, all’epoca pittore e poi rinomato scultore, con il quale ho iniziato a partecipare ai primi concorsi di pittura. Poi i corsi con il Maestro Antonio Nucca insieme all’amico Alessandro Albertini, gli incoraggiamenti e i consigli degli amici pittori Carlo Caporal, Massimiliano Bertolazzi, Odilla Zanella. Ricordo inoltre con grande affetto il critico d’arte e poeta veronese Alessandro Mozzambani che mi ha trasmesso la sua passione per l’arte con la “A” maiuscola raccontandomi delle sue conoscenze con i principali protagonisti dell’arte del ‘900. Un altro momento importante per la mia formazione è rappresentato dall’incontro con la Galleria Ponte Rosso di Milano che ha saputo infondermi fiducia e incoraggiamento, tutt’ora per me molto validi”.
di Piergiorgio Ferrarese, in “Percorso immaginario lungo i sentieri dell’anima”