Chi allunghi l’occhio sui dipinti prescelti per questa mostra ( e li riguardi con attenzione) si accorge che danno testimonianza d’una vena pittorica avvincente come un “allegretto” eseguito da un clarinettista in forma. Cambia il motivo figurale, al paesaggio di collina subentrano composizioni floreali; ma l’intonazione persiste con la sua vivezza soave, interamente affidata al variare delle dosature di luce e di colore, che animano lo spazio terso dell’immagine. L’intenditore di pittura veneta novecentesca noterà subito che Carradore, con la sua iride splendente, sta svolgendo una ricerca solitaria che imprevedibilmente, è per naturalezza istintiva, si rifà a due predecessori ben noti: Gino Rossi, “perno della comunità di Ca’ Pesaro” (Perocco) e Umberto Poggioli, sottile evocatore di incanti bucolici buranelli. In realtà, nelle aperture paesistiche in mostra si possono scorgere (nell’impostazione a piani ad andamento curvilineo e nella modulazione cromatica) affinità e corrispondenze: sia con certi paesaggi dipinti da Rossi in Bretagna, a Asolo, a Burano (nella sua prima fase di lavoro anteriore al 1915), sia con certe visioni paesistiche di Umberto Poggioli, così come si manifestano, spiccatamente, in alcuni dipinti del 1914, come il paesaggio asolano, le colline di Asolo, la strada dei biancospini, il Canale di Saccagnana. Purtroppo, queste assonanze rischiano di essere malintese. Il mito ottenebrante della cosiddetta creatività, sempre più diffuso, induce a travisarle come fossero davvero segni diminutivi o sintomi di passiva dipendenza di Carradore dai due predecessori affini.
Così si sgarra, ossia si dimentica che la storia dell’arte, degna del nome, non conosce casi di artisti davvero autarchici o del tutto svincolati da riferimenti alla cultura da cui provengono. Anche nel divino Raffaello persistono tracce del Perugino; anche in Cèzanne occhieggia Pissarro: come certo residuo cubista, o certa architettura di Kyoto, in Mondrian. Analogamente, nella pittura di Carradore certi tenui richiami a Rossi e a Poggioli attestano affinità comuni, ravvisabili in tre persone diverse, collegate da un insieme di predilezioni condivise. In particolare, per sintonizzarsi con i peculiari risultati raggiunti da Carradore nei dipinti in mostra occorre svolgere alcune informazioni di base. La prima riguarda il breve apprendistato ai corsi liberi dell’Accademia Cignaroli, dove il giovane autodidatta per vocazione, segue le lezioni introduttive di Patuzzi (attinenti alla tecnica della pittura) e quelle di Giuliari (pittore appassionato di storia dell’arte). La seconda notizia concerne la lunga attività espositiva, iniziata negli anni ottanta nei dintorni di Lobia di San Bonifacio, dove Carradore (nato il 30 luglio 1963) ha continuato, da solitario ricercatore tenacissimo, ad alimentare la fiamma della pittura con gli ingredienti culturali più adatti a farla crescere senza snaturarne quel particolare brio brulicante di luce e colore. Così, grazie ad una sollecitazione istintiva, simile a quella di un rabdomante (che con la verghetta magica cerca di scoprire una vena d’acqua pura), Carradore ha cercato i fertilizzanti più consoni allo sviluppo della sua pittura. E li ha trovati in Rossi e Poggioli, due paesisti rientranti in una vasta cultura, affascinata da quella che si potrebbe chiamare la lezione sintetista di Gauguin; gran colorista, risoluto ad allontanarsi dall’impressionismo semplificandone la visione con risalti di “colori inventati”, puri, non succubi della verosimiglianza. Il Paesaggio Tahitiano ( conservato a Minneapolis), dipinto da Gauguin nel 1891, è quasi l’emblema di un paesaggio da paradiso terrestre, destinato a diffondersi nel gusto di innumerevoli artisti, sensibili al suo splendore non contaminato dalle torbide frenesie della “società civilizzata”, nemica della quiete contemplativa.
Anche Carradore ha avvertito il fascino della poetica di Gauguin. Ma il suo caso è quello di un artista-artigiano, che non anela all’evasione, al primitivismo edenico, ma cerca di realizzare una nuova specie di armonia: parola di fonte greca, proveniente “in origine dalla sfera del tatto e della vista: termine del falegname che adatta delle parti” (Spitzer). E infatti, proprio come faceva un tempo il Carradore (artigiano addetto ai carri), il pittore di Lobia segue il presagio del suo cognome; e connette vividi brani d’armonia visiva. Li connette così bene che non abbisognano di speciali aiuti ermeneutici: basta guardarli con attenzione. E subito si avverte che non sono prodotti della diffusissima “fobia provinciale di restar fuori dalla moda” (Brandi); ma della passione di rendere visibile una rappresentazione di natura paragonabile a una piccola festa silenziosa, affidata a colori sbocciati su trame disegnative essenziali che scompaiono, come residui inutili, via via che si allargano campiture soleggiate, attraversate o protette da zone d’ombra densa. Non c’è sfoggio di minuzia descrittiva. Chi la ricerchi, distrae l’attenzione da ciò che pulsa: la luminosità ariosa dei campi color grano maturo, dove l’ocra, bionda e rosata, splende al di qua dei profili collinari, in cui risultano densità di turchino e di viola e tocchi luminosi appena accesi nella calma accogliente dei colli…
Con questi accenni di commento, si è cercato di trasporre in parole la vivezza icastica d’una pittura continuamente desiderosa di riconseguire l’armonia del mondo: come presenza rasserenante, apollinea, sgombra d’ogni trama Saturnina. Nei più felici dipinti ora esposti (come La casa in fondo al prato, Paesaggio di collina, Sole d’inverno, Estate) è il ritmo stilistico, con la sua esultanza ammirativa di spontanea inclinazione francescana, che persiste: sempre in accordo coi motivi bucolici prescelti per empatia, per libera scelta fuori moda, per un impulso conservativo genuino, che può sembrare antimoderno. Ma non lo è. Proviene infatti da un radicamento forte, resistente allo sradicamento di ogni tendenza d’arte da quelle sorrette dai promotori dell’idolatria dell’avanguardia (col suo mercato rumoroso e sconcertante). Carradore si trattiene certamente in una delle zone di retroguardia di cui non si curano i padroni dell’”estetismo dell’angoscia”, o del neodadaismo, o del minimalismo, o dell’informe delle più varie specie. Ma – diciamolo pure sottovoce – merita ammirazione proprio per la tenace naturalezza, senza protervia, che – nella quiete dello studiolo di Lobia – gli ha consentito di continuare a dipingere in obbedienza al suo tempo interiore.
di Gian Luigi Verzellesi