Un vento primaverile, fresco come le nevi che biancicavano oltre le colline sopra san Mauro delle Saline, svariava le foglie dei pioppi appena nate, il grano già verde, e le nuvole grigie alitanti tremori e bagliori.
Alla Lobbia di San Bonifacio ci accolse il cane: remissivo e attento. “Le faccio vedere la mia esposizione – mi disse Carradore appena sceso dalla macchina – è una cucina antica della corte”.
Sciolse uno spago che fermava un tirante e aprì la porta di ferro dipinta di azzurro e di verderame che apriva su di una stanza dall’impiantito in mattoni. Sui muri dipinti di bianco una dozzina di quadri. Paesaggi e nature morte: i colori sopravanzano un segno inquieto, che argina appena le forme, che tendono a superarlo per intrecciare un tessuto di vibrazioni sottili, più tonali cromatiche, anche se la forza visiva è solida e compiuta. Sono vedute della pianura che ci sta davanti, delle colline della Lessinia che digradano dolci verso la Carega, delle corti e delle piccole borgate di questa parte di pianura pedemontana che sente la nebbia e il sole come una soluzione unica. L’occhio coglie l’armonia silenziosa di queste campagne in cui non s’incontra nessuno e solo il vento vi parla, remoto e dolcemente loquace. Come oggi che pioviggina a tratti: lo porche fumano quasi fossero appena state rovesciate, e i fossi stagnano alzando languggini verdi addosso alle tife antiche che spiumano nuvole ovattose. Sono paesaggi che riconosci subito per una loro simpatia naturale. Direi veneta: ci senti Gino Rossi e le sue colline asolane; ci senti Guido Trentini e Costermano; ci senti Angelo Zamboni e i profili collinari intorno a Velo. Ci senti una storia che ci è cara perché ha saputo essere se stessa con freschezza e vivacità, evitando sia il paesaggismo oleografico e di maniera, sia un facile naturalismo ottocentesco. Ed è ancora viva in questo giovane artista che si presenta da solo, senza grandi storie alle spalle, con la forza mite e serena di chi la pittura l’ha incontrata con la naturalezza con cui si incontra la propria terra aprendo la porta di casa. Carradore, infatti, vive e lavora in campagna: come pittore, ma anche come uomo di terra. È importante questa annotazione per comprendere la solidità, da una parte, e la delicatezza della sua pittura.

La delicatezza dei colori che privilegiano le variazioni tra l’azzurro e il verde, improntando i rapporti con la dolcezza di una luce stemperata, mai violenta; la solidità dell’impianto che si costruisce per prospettive chiare, preferendo più spesso la panoramica a volo d’uccello, così naturale per un territorio come quello della Lobbia, che si perde a Sud della Bassa e si confronta a Nord con la salita delle colline verso il cielo e verso le prime cime innevate. Una solidità di impianto del disegno più in generale: credo che nel disegno stia l’elemento primo che distingue la pittura di Carradore. Un disegno pensato e studiato sulla scorta, non tanto di elementi accademici, che pure esistono, quando sullo studio appassionato e costante che questo pittore manifesta. Penso al disegno di Degas e Toulouse Lautrec, ma anche al disegno del primo Casorati e penso a quella lunga e amorosa pratica di disegno esercitata da Pio Semeghini e insegnata ai più giovani amici veronesi, con cui venne in contatto subito dopo la prima guerra. Il disegno come forma compiuta di comunicazione artistica. Il colore sarà non la veste del disegno, ma il suo sviluppo naturale se il pittore lo vorrà. Una solidità – ancora – data dalla compattezza delle forme che tendono ad elementarizzare la composizione secondo un criterio di sviluppo dell’immagine non impressionistico. La stessa scelta di un cromatismo acceso, dalle evidenti referenze nabis più che fauves, ci indica il clima culturale in cui nasce questa pittura pienamente novecentesca, che oggi torniamo a gustare e ad apprezzare; questa ricerca raffinata e moderna che tra forza – come la pittura di Carradore – dalla grande lezione delle avanguardie di inizio secolo, che l’hanno aiutata a liberarsi di quanto di stantio ancora gravava sull’eredità ottocentesca.

Francesco Butturini, mostra presso “Officina d’Arte” (VR), 1998