La vocazione più poetica e nobile della tradizione pittorica che ha reso grande l’arte veneta è quella per il paesaggio. Così è stato anche per la pittura toscana – non dimentichiamo il fermento culturale intorno alla pittura labronica negli anni Venti del Novecento – o per la pittura napoletana di paesaggio in quegli stessi anni. In un mondo che tendeva già all’astratto c’era chi ostinatamente – e faceva bene – proseguiva nel cantare il paesaggio, ognuno con il suo stile, ognuno con il suo sentimento, ognuno con quella pennellata e con quei colori segno di una ancor più salda e antica tradizione culturale. Qualche anno prima De Nittis, Boldini, Mancini e Irolli lasciarono il segno nell’arte del ritratto a consolidare quelle che sarebbero state importanti scuole di pittura, portando ancora una volta il nome dell’Italia nel mondo. Nella pittura veneta, nell’arco di un secolo, artisti del calibro di Nani, Favretto, Nono e Induno, in un contesto proiettato verso una rinnovata modernità artistica, consolidavano invece la pittura di tradizione. Poi… le avanguardie, il colore libero e gestuale: è libertà cromatica e compositiva. L’astratto prende il sopravvento e la pittura figurativa di tradizione classica sembra subire una battuta d’arresto. Se non fosse stato per artisti che, sperimentando il colore e la forma, restituirono ugualmente l’immagine di un paesaggio o di un volto, secoli di figurazione avrebbero subito un serio contraccolpo. Ma la figura resiste e prende nuove strade. Se prima natura e volto sono raffigurati in maniera ordinaria, ora il colore domina e l’artista, tutt’uno con l’ambiente, riflette sulla tela i suoi sentimenti: gioia e malinconia, serenità e angoscia. Non è più l’immagine tradizionale del paesaggio o del ritratto a essere impressa sulla tela ma è il sentimento dell’artista a guidare la mano. Saranno opere di forte impatto, paesaggi dell’anima, di straordinario fascino coloristico ed emozionale. Sono Rossi e Moggioli alcuni degli artisti che rappresentano questo nuovo sentimento, a volte di quiete, spesso di tormento e lacerazione. Colore e tratto tendono ad abbandonare le sfumature a favore di accostamenti talvolta contrastanti e di un disegno che giunge alla primitivizzazione delle forme.

Forte di una matrice culturale e di un’ispirazione che ricorda i grandi maestri, Vittorio Carradore libera la sua arte negli spazi di una tela, o più spesso di una tavola, dove all’osservatore si presenta un mondo di paesaggi che sembra andare oltre, a irrompere di là da quella linea di orizzonte spezzata da colline, pendii e dorsali. Sì, perché l’occhio tende a superare quella superficie, quasi a permetterci di immaginare ciò che l’artista vede o ha visto nel momento in cui dipingeva ma che, per una certa complicità con quel territorio, non ha voluto raffigurare, come a mantenere per sé quello scrigno di magica natura che circonda il soggetto: mondo di quiete intimo e privato.

Così Carradore racconta, con incisività, quell’ideale contorno, tenendo per sé ciò che lo circonda, dando all’osservatore il fascino di immaginarlo. Con lo stesso desiderio di segretezza, a idealizzazione di un sentimento di complice armonia con il territorio, incantano le opere dedicate a strade e sentieri di provincia. Sono tracciati di polvere che, con un moto curvilineo, tagliano un campo o una collina, non lasciando immaginare cosa si nasconda dietro quell’angolo. Ci è dato sapere dove siamo, ma certamente dove quella strada ci porterà, rimarrà un mistero: limite da superare alla ricerca di nuovi panorami.

È da quel territorio, che riconosciamo nelle valli e nelle colline della Lessinia, che parte il lavoro dell’artista, sinfonia cromatica d’altri tempi, canto alla natura dove a trionfare è il colore. Sono colline così silenziose che sembrano urlare un desiderio di ritorno alla semplicità e alla genuinità (Mattino a Crespadoro, Paesaggio con pagliaio). Il territorio raccontato da Carradore è quello di una natura generosa (Campo di grano, Vigne in collina): allegra e rigogliosa nelle vedute primaverili ed estive, dove la terra regala i suoi frutti, altrettanto decisa nel suo riposo invernale, tanto importante quanto necessario. Se i colori vivaci della primavera e dell’estate lo connotano come artista vicino a una certa pittura veneta del Novecento, è nell’inverno, in quelle magiche nevicate, che Carradore rivela un sentimento ancora più forte, un amore ancora più sincero e profondo per un territorio pacato e assorto (Prima neve, Campo innevato). Come Segantini, maestro nel racconto dell’evolversi delle stagioni (Il Trittico delle Alpi), Carradore rappresenta le fasi della campagna, in un’ipotetica allegoria della vita. Nella sua arte troviamo paesaggi così rispettosi della natura come lo erano quelli dei labronici e dei veneti di fine Ottocento. Ci sono paesaggi che portano con sé l’energia dell’Avanguardia, la bella e viva sfrontatezza coloristica dell’artista tormentato – ma Vittorio è artista sereno, lo si evince dalla dolcezza del suo tratto pur nell’energia del colore – ma anche nature morte e oggetti inanimati che hanno al contempo la delicatezza di Chardin e la forza di Cézanne (Due rose, Bottega Collodi, Il tavolino azzurro). Anche i volti e i ritratti di gente comune sono uomini, donne e bambini in armonia con le faccende quotidiane, lavorative e di svago: un contadino intento a sistemare i suoi strumenti, una donna che ricama, bambini che si scambiano le figurine, gruppi di persone a feste agresti. Carradore ha questa capacità: con colori intensi e audaci riflette serenità, memoria di un mondo di valori che vive del dialogo e della partecipazione alla vita familiare e collettiva (Porcellane, Ricordo d’infanzia, Carnevale alla Lobia, La partita a dama). Come Mancini raccontava figure nel loro contesto, quasi fotografate di soprassalto e catturate in quell’istante (A circus boy, Lo scolaretto, Acque Basse), anche Carradore si immerge, con la stessa naturalezza, nella figurazione umana. Nulla è in posa! E questo è un superamento positivo. Paesaggi dell’anima e ritratti emergono dal sentimento e dal vissuto dell’artista. Complicità… con la vita.

Federico Martinelli in Percorso immaginario lungo i sentieri dell’anima